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Sarajevo Underground: 32 ore tra mercati, pistole e Rolex veri (o quasi)

Aggiornamento: 3 giorni fa

Veduta di Baščaršija a Sarajevo con il celebre Sebilj al centro e un volo di colombe che anima la scena, tra tetti rossi, minareti e montagne sullo sfondo
Veduta di Baščaršija a Sarajevo con il celebre Sebilj al centro

Tornare a Sarajevo due volte negli ultimi tre mesi non è qualcosa che mi capita spesso. In realtà, è raro che ritorni in un luogo già visto, a meno che non senta il bisogno di approfondire, osservare meglio, studiare ciò che mi circonda con uno sguardo nuovo. Ma Sarajevo è una città che non si esaurisce in un primo incontro. Ti resta addosso come un profumo che non capisci subito, e che proprio per questo vuoi risentire.

E poi, diciamolo, non vedevo l’ora di bermi un caffè alla bosniaca accompagnato da un lokum. Quei piccoli cubetti gelatinosi, morbidi e dolcissimi, fatti di zucchero, acqua e amido, cosparsi di zucchero a velo, sanno trasformare anche il silenzio di un vicolo in un rituale antico.

Sarajevo è un luogo dove la storia non si legge sui libri: si ascolta. È scritta nelle pietre consumate di Baščaršija, nelle moschee che chiamano alla preghiera, nelle facciate austro-ungariche del centro e nei palazzi brutalisti che raccontano la Jugoslavia. È una città sospesa tra imperi e ferite, tra Oriente e Occidente, tra tragedie recenti e una capacità sorprendente di sorridere nonostante tutto.

Ed è proprio qui, in questo crocevia di identità e memoria, che inizia il mio nuovo viaggio. Uno sotterraneo, quasi nascosto, fatto di mercati improbabili, Rolex autentici o quasi, pistole poggiate su bancarelle improvvisate e incontri che da soli valgono 1800km di viaggio in auto.


Banco improvvisato nel mercato dell’usato di Sarajevo con pistole, orologi vintage e presunti Rolex appesi, simbolo dell’anima underground e contraddittoria della città.
Banco improvvisato in un simil mercato dell’usato di Sarajevo. Pistole, orologi vintage e presunti Rolex appesi.

Comunque non è normale che ogni anno mi ritrovi davanti a pistole, era successo meno di un anno fa in Bulgaria: orologi, pistole e uova Fabergé. Questo trio si ripete a modulo continuo.

Una Sarajevo Underground esiste davvero, basta solo guardare nei posti giusti.


Il cammino verso il centro: tra cortili, memoria e vetro

Peugeot 504 d’epoca parcheggiata in un cortile della periferia di Sarajevo.
Peugeot 504 d’epoca parcheggiata in un cortile della periferia di Sarajevo.

La prima scena arriva in silenzio.

Una Peugeot 504, color sabbia e sospesa nel tempo, riposa sotto una tettoia che sembra reggersi più per abitudine che per struttura. Una macchina che negli anni Settanta e Ottanta percorreva l’ex Jugoslavia come un mulo instancabile: robusta, economica, onnipresente.

Trovarla oggi in un cortile polveroso della periferia di Sarajevo non è un dettaglio casuale, ma un indizio. Un promemoria che qui il passato non viene archiviato, ma resta appeso, come un odore nell’aria. Proseguendo a piedi, la città mostra un’altra faccia. Le case si fanno più fitte, le strade più strette, i rumori confusi tra ferro, passi e voci che rimbalzano dai piccoli negozi. È una transizione morbida ma netta: Sarajevo non cambia mai “per zone”, cambia per respiri.


Il ponte dove tutto si è fermato


Poi la strada curva verso il fiume Miljacka e l’atmosfera cambia di nuovo.

Si arriva al ponte Vrbanja, luogo in cui la storia recente si è spezzata. Non ci si passa accanto per

caso.

Memoriale sul ponte Vrbanja di Sarajevo dedicato a Suada Dilberović e Olga Sučić, prime vittime dell’assedio del 1992
Memoriale sul ponte Vrbanja di Sarajevo dedicato a Suada Dilberović e Olga Sučić, prime vittime dell’assedio del 1992

La lapide dedicata a Suada Dilberović e Olga Sučić, prime vittime civili dell’assedio nel 1992, obbliga chiunque a rallentare. È semplice, chiara, brutale nella sua sincerità.

Le parole incise recitano:

“Una goccia del mio sangue scorre. E la Bosnia non si prosciuga.”

Poche frasi, un colpo allo stomaco. Qui morirono anche Boško Brkić e Admira Ismić, la coppia mista che il mondo ricorda come i Romeo e Giulietta di Sarajevo. A questo punto il viaggio non è più una passeggiata fotografica, diventa un passaggio obbligato attraverso la memoria.


La città che si rialza: il Sarajevo City Center


Grattacielo del Sarajevo City Center con riflessi di luce sul vetro, simbolo della ricostruzione moderna della città.
Grattacielo del Sarajevo City Center con riflessi di luce sul vetro, simbolo della ricostruzione moderna della città.

Ed è proprio per questo che l’ultimo tratto del percorso colpisce così tanto.

Perché basta continuare a camminare per pochi minuti affinché la città cambi tono ancora una volta, come un’orchestra che passa da un movimento lento a un crescendo.


Sarajevo City Center e in primo piano i They Die che la stessa sera avrebbero suonato all'AG Club.
Sarajevo City Center e in primo piano i They Die che la stessa sera avrebbero suonato all'AG Club.

Il Sarajevo City Center, inaugurato nel 2014, svetta come un prisma di vetro contro il cielo.

È uno dei simboli più evidenti della rinascita post-bellica, un complesso commerciale e direzionale che non nasconde il suo intento: guardare avanti senza esitazioni.

Il sole rimbalza sulle sue superfici con la presunzione dei luoghi nuovi.

È modernità pura, quasi provocatoria se pensata accanto ai palazzi feriti della guerra. Eppure, Sarajevo funziona proprio così: un mosaico di stili, ferite e aspirazioni che nessuna città al mondo riesce a far convivere con la stessa naturalezza.


Dalla Peugeot 504 al ponte della memoria, fino al grattacielo scintillante:

tre immagini che in qualunque altra città sembrerebbero scollegate, ma che qui formano un’unica frase.


Una frase che Sarajevo pronuncia da trent’anni:

“Sono ancora qui.”


A Sarajevo ci sono profumi che raccontano più della storia scritta nei libri. Uno di questi è quello del succo di melograno appena spremuto. Le bancarelle compaiono ovunque, soprattutto nel tardo pomeriggio quando la città rallenta.


Bancone di melograni aperti in una bancarella di strada a Sarajevo, con un giovane venditore sullo sfondo, simbolo della tradizione locale del succo fresco.
Bancone di melograni aperti in una bancarella di strada a Sarajevo, con un giovane venditore sullo sfondo, simbolo della tradizione locale del succo fresco.

Bottiglie scure riempite di rosso denso, melograni aperti come fiori carnosi, e un venditore che alterna sorrisi e gesti veloci mentre la gente si ferma, beve e riparte. È una piccola liturgia quotidiana, semplice e ipnotica.

Pochi metri più avanti, dietro una porta in legno e vetro, due anziani occupano lo stesso tavolo da anni. Non ordinano altro oltre al loro caffè bosniaco, servito lentamente, sorseggiato ancora più lentamente.


Due anziani seduti in un caffè tradizionale di Sarajevo, immersi in una lunga conversazione davanti a un caffè bosniaco.
Due anziani seduti in un caffè tradizionale di Sarajevo, immersi in una lunga conversazione davanti a un caffè bosniaco.

Qui il tempo non ha fretta: un caffè può durare due ore senza che nessuno si sorprenda. Le risate, le pause, i silenzi sono parte dell’arredamento quanto le luci calde e gli odori della cucina.

Quando il sole si abbassa tra i palazzi e inizia a tingere tutto di oro, la città si muove in una coreografia silenziosa.


Famiglia che attraversa un incrocio nel centro di Sarajevo al tramonto, mentre la luce calda illumina la strada.
Famiglia che attraversa un incrocio nel centro di Sarajevo al tramonto, mentre la luce calda illumina la strada.

Famiglie che tornano a casa, bambini che trascinano borse più grandi di loro, padri che tengono il sacchetto della cena, madri che stringono mani piccole per non perderle tra la folla. È un momento sospeso, quello in cui la Sarajevo della quotidianità mostra il suo volto più vero: non quello delle cartoline, ma quello della vita che scorre, ancora e sempre.

La notte è vicina, e Sarajevo sembra prepararsi come un palcoscenico che sta per cambiare scena.


Ed è quando finalmente la città smette di fare rumore che Sarajevo rivela il suo lato più segreto. Le luci dei tram si dissolvono nell’aria umida, i marciapiedi si svuotano e, sotto la superficie apparentemente tranquilla, si accende una scena notturna che pochissimi conoscono davvero. È un mondo parallelo, fatto di cantine riconvertite, bar che sopravvivono grazie alla fedeltà di pochi habitué e club che si raggiungono solo se qualcuno ti indica la porta giusta.


Foto in locale notturno a Sarajevo, AG Club
Backstage all'AG Club di Sarajevo. A dx Samir e a sx il suo sound designer.

È così che finisco all’AG Club, uno di quei luoghi che esistono solo perché qualcuno ha deciso che er assolutamente necessario andarci. E aveva ragione.

Nella penombra, mentre la musica prende forma con i They Die sul palco, le conversazioni diventano più lente, più vere. Sarajevo di notte non è una città da osservare: è una città che ti assorbe. Ogni volto diventa un personaggio, ogni ombra un indizio, ogni luce un invito a guardare meglio. E proprio quando pensi di avere capito dove sei, qualcuno ti racconta un frammento di vita che riesce a ribaltare la trama della serata.

Più tardi, nel cuore della notte, il locale si dissolve letteralmente davanti ai miei occhi. La macchina del fumo lavora senza sosta, una nebbia densa sale dal pavimento e inghiotte tutto. Le luci al neon filtrano appena, trasformando le persone in sagome che si muovono a scatti, come in un vecchio film sovraesposto. Ed è lì, nel caos sospeso e tra musica e colori che esplodono nel vuoto, che lo vedo.


Ritratto notturno di Massimiliano Griggio detto "Macho"
Macho in blu.

Occhiali sottili, profilo scolpito dalla luce blu, l’aria di qualcuno che appartiene a un’altra decade e che per qualche ragione è finito qui, nello stesso istante in cui esco dal fumo artificiale e mi siedo. È semplicemente Macho, in uno dei ritratti più difficili di sempre.


Sarajevo non è la città che ci si aspetta.

Per anni l’abbiamo immaginata attraverso un retaggio di immagini legate alla guerra, ai palazzi feriti, ai titoli di giornale degli anni Novanta. Ma quella Sarajevo non esiste più.

La città si è rialzata, ha ricucito le sue strade, ha riempito gli spazi vuoti di vita nuova e di una normalità che sorprende più della storia che l’ha attraversata.

Proprio per questo, stavolta, ho scelto di non fotografare la modernità. Niente grattacieli scintillanti, niente centri commerciali o architetture che raccontano la ricostruzione. Ho preferito guardare altrove: nei gesti quotidiani, nei locali nascosti, nei mercati, nei volti incontrati per caso. Perché è lì che Sarajevo rivela la sua anima, non nel mostrare ciò che ha costruito, ma in ciò che ha conservato.

È una città che ti sorprende quando smetti di cercare ciò che credi di sapere e inizi a vedere ciò che c’è davvero. E a quel punto capisci che Sarajevo non si visita: si scopre.

Ogni volta in un modo diverso.



PER I FOTOGRAFI CHE CAPITERANNO QUI:

Volevo testare la mia Leica M con un Brightin Stars 28mm F2.8. Quelle che vedete sono foto pesantemente editate. Non faccio recensioni ma l'ottica in questione ha un arcobaleno di difetti.



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